La peculiarità di Vanessa Cavallaro è quella di “sottrarre” l’oggetto di elevata progettazione, di qualità materiale altrettanto elevata, alla serialità, per farlo diventare un pezzo unico il quale conserva la propria funzionalità, ma acquista l’aura dell’unicum
La tela di Penelope e i cristalli incisi. Riflessioni sull’opera di Vanessa Cavallaro.
In occasione della mostra Nuvole di Vanessa Cavallaro, Giovinazzo (BA), 7 giugno 2009, Sala San Felice, con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Giovinazzo e della FIDAPA, sezione di Giovinazzo.
Penelope, moglie di Ulisse, durante la guerra di Troia e nel lungo allontanamento del marito da Itaca – un marito come narra Omero nell’Odissea che viaggiava per le terre del Mediterraneo e dell’Egeo – per sfuggire alla pressante richiesta di scegliersi un nuovo compagno fra i Proci che le assediavano la dimora, dichiarò che avrebbe scelto lo sposo quando avesse terminato di tessere quello che avrebbe dovuto essere il lenzuolo funebre del suocero Laerte; per impedire che ciò accadesse ella di notte disfaceva quello che tesseva durante il giorno.
Si cita ancora la tela di Penelope per riferirsi ad un lavoro che non avrà mai termine, dunque come metafora di ogni attività cui ci si applica senza vederne la fine. Ebbene, la citazione della storia di Penelope, una storia che appartiene alla civiltà occidentale e che narra di una sposa fedele, di un’infaticabile lavoratrice, ma anche di una donna astuta e capace di gestirsi pure in assenza dell’uomo, tale citazione, in occasione della mostra dei cristalli incisi di Vanessa Cavallaro, viene fatta in senso proprio e letterale, ossia come rappresentazione di poièsis, in questo caso il fare al femminile, senza troppi discorsi, ma con una fede smisurata nell’operatività, umile e lenta delle donne, che salva il mondo. Penelope è l’emblema dell’artigianato artistico al femminile.
Nella società greca, dato che di là si sta partendo, non vi era distinzione fra le arti maggiori (pittura, scultura, architettura) e le minori (smalti, oreficeria, tessuto, ceramica…), tanto che vi era un solo termine, quello di tèchne, per rappresentare tutta l’operatività umana. Probabilmente non vi era neppure il concetto rinascimentale di opera d’arte nel senso che si attribuisce oggi al termine, poiché, ad esempio, anche lo splendido Partenone di Atene con le sue magnifiche statue, cui si attribuisce un alto significato artistico, era essenzialmente un tempio religioso. Il concetto di un oggetto creato per pura superfluità, un oggetto che può allietare la vista, riempire la vita, che si può tesaurizzare e da cui si può anche trarre profitto, tale concetto è stato attribuito all’opera d’arte in età moderna.
Ma se tale spostamento di senso ha coinvolto – delle arti maggiori – soprattutto la scultura e la pittura (giacché l’utilità pratica dell’architettura non è mai stata messa in discussione) nella divaricazione quattrocentesca fra arti maggiori ed arti minori, queste ultime hanno conservato l’utilità come loro segno distintivo: perché un lenzuolo ricamato è fatto ad arte, può essere un’opera d’arte, ma è pur sempre un oggetto d’uso, così come un orologio secentesco decorato con un micro-ritratto dal grande pittore svizzero Liotard è un’opera d’arte, ma nasce essenzialmente per misurare il tempo. Per tale motivo le arti minori hanno pagato nel corso della storia la retrocessione nella considerazione del loro essere più o meno oggetti artistici, proprio per l’utilità che vi è connessa, a fronte dell’inutilità, della superfluità della sovrabbondanza delle arti maggiori pittura e scultura.
In tutta la trattatistica estetologica settecentesca non si fa che discutere tra bisogni primari e bisogni secondari dell’essere umano e certo l’arte non è tra i primi; ma se un oggetto serve a raccogliere l’acqua o l’olio (un vaso decorato), a contenere capi d’abbigliamento (un cassone di legno scolpito), a fare la guerra (una spada o uno scudo istoriati), poiché tali oggetti sono riconducibili ai bisogni primari dell’uomo (il nutrirsi, il rivestirsi, il difendersi), ecco che essi, pur essendo realizzati con grande perizia o con materiali di pregio, quegli oggetti, per il solo fatto di servire ad una funzione, hanno l’utilità connessa con la propria esistenza.
Vi sono stati momenti nella storia dell’arte in cui tale frattura tra le arti maggiori e le arti minori è sembrata essere ricucita, ad esempio all’inizio del Novecento con la tedesca Bauhaus: il programma di tale gruppo consisteva nella precisa volontà di abbattere i confini fra le arti, proponendo oggetti di elevata progettazione alla portata economica di fasce estese di popolazione. Con la Bauhaus nasce il concetto contemporaneo di design: oggetti – progettati da una nuova figura di artista-architetto – affidati alla produzione industriale, spesso realizzati con materiali poco costosi (si vedano oggi le lampade poliuretaniche di Philippe Starck) oggetti i quali possono arrivare nelle case di tutti, almeno di chi possiede un certo gusto.
La produzione seriale, si diceva, caratterizza il design di oggi, dunque un oggetto identico può essere posseduto da più persone. Senza adesso entrare nel merito se la moltiplicazione in copie connoti un oggetto ancora come oggetto artistico (dovremmo iniziare il discorso da Andy Warhol e giungere a molte manifestazioni seriali dell’arte contemporanea), si cercherà di capire quale sia l’operazione che Vanessa Cavallaro compie. Certo il suo lavoro, la lavorazione dei cristalli, appartiene all’insieme delle arti minori. Nell’Europa dell’età moderna Germania, Francia, Polonia, Cechia sono state le patrie di tale elevato artigianato artistico, strettamente collegato (come per le porcellane, i tessuti, i parati, l’ebanisteria, i tappeti, gli encausti, gl’intarsi marmorei), alla committenza delle corti e delle famiglie aristocratiche fra il Quattrocento e l’Ottocento.
La peculiarità di Vanessa Cavallaro è quella di “sottrarre” l’oggetto di elevata progettazione, di qualità materiale altrettanto elevata, alla serialità, per farlo diventare un pezzo unico il quale conserva la propria funzionalità, ma acquista l’aura dell’unicum. Inoltre, il lavoro dell’incidere il cristallo è operazione che si può paragonare a quella del disegnare, la prima attività per fare arte per un occidentale. Anzi il disegno da solo è spesso un’opera d’arte compiuta. Disegnare il cristallo, poi, a parte l’abilità che può rendere l’esecuzione più o meno rapida, è operazione delicata e meditata, in cui il disegno ha qui la sua piena doppia valenza di circonlocuzione di contorni ma anche di messa in opera di un progetto pensato in precedenza. Se la possibilità d’uso fa appartenere senz’altro i cristalli incisi al novero delle arti minori, tuttavia è l’assenza di serialità dell’operazione dell’incidere a donare agli oggetti della Cavallaro la vicinanza alle arti maggiori.
Qualora un cristallo inciso dell’artista lo si rinchiudesse in una vetrina e non lo si facesse vivere per la funzione che gli è propria, museificandolo, gli si attribuirebbero dei sensi e dei significati molto vicini a quelli delle arti maggiori. Ma si vuole davvero ciò? Si vuole davvero chiudere a chiave gli oggetti belli come si faceva un tempo (con il salotto buono, con l’argenteria mai usata, con le lenzuola ricamate mai messe?) o non si vuole piuttosto vivere circondati da essi, perché regalano gioia alla vita? Tornare ad occuparsi degli oggetti di casa, avere a cuore la loro manutenzione, mantenerli in uso, avere loro cura, è vero, richiede tempo, però è oggi un segnale di opposizione ai ritmi convulsi del quotidiano, per riappropriarsi di ritmi più lenti, slow come si usa dire, ritmi di certo più umani. Nell’epoca delle forti innovazioni tecnologiche che si vivono attualmente si registra contemporaneamente, non come fenomeno di nicchia, ma come esigenza insopprimibile dell’uomo, il bisogno di applicarsi alle arti manuali. Infatti, come afferma il sociologo Derrick De Kerckhove, l’innovazione e la stabilità devono andare di pari passo per l’insopprimibile bisogno di equilibrio dell’essere umano.
Giusy Petruzzelli
Estetologa
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